L’odore del fuoco. È questa la prima immagine che mi lega al Madagascar. Sì, esattamente l’odore. Mi capita ancora, dopo diversi anni dalla mia ultima visita, di sentire questo profumo particolare, mentre cammino, mentre semplicemente sono impegnata in qualunque atra cosa; mi passa come in un lampo sotto il naso, lo sento come se ci fosse realmente, come se fossi lì in Madagascar, l’odore dei fuochi accesi nei bordi delle strade quando il sole e la temperatura calano.
Sono stata in Madagascar la prima volta a luglio del 2014, ed una seconda volta l’anno successivo, ospite dei due missionari fidei donum della diocesi di Sassari, don Francesco e don Emanuele.
A distanza di alcuni anni, questa esperienza rappresenta ancora il punto esatto in cui ho capito la direzione da voler dare alla mia vita. Vado a ripescare i ricordi, qualcosa di “epico” da raccontare, ma la verità è che di notevole, di degno di nota, non ho fatto nulla. E va bene così, perché proprio questo sentirmi piccola, infinitamente piccola al cospetto di un contesto che fino ad allora avevo solo immaginato, mi ha dato con il tempo gli strumenti per apprezzare la meraviglia di quello che ho vissuto.
Le mie giornate sono state scandite dalla semplicità, dalla lentezza, dal vivere la quotidianità di un contesto inusuale per me, e dalla necessità di mettermi in gioco e in discussione. Il Madagascar ha rappresentato per me occasione di profonda crisi, una crisi dolorosa quanto costruttiva, quella goccia che ha fatto traboccare un vaso che era giusto traboccasse.
Riguardo spesso le foto scattate, e non c’è un solo dettaglio che io abbia rimosso, dimenticato, che sia sbiadito o lontano. Ogni viso incontrato, ogni mano stretta, ogni piatto gustato, ogni profumo sentito, rimangono lì, a ricordarmi da dove il mio viaggio, interiore, umano, spirituale, è partito.
Mi rivedo seduta in fondo nella piccola chiesa del villaggio di Analavoka, dove ho passato gran parte del mio tempo, a partecipare alla messa in lingua malgascia, e avere la sensazione di capirla, io, che in chiesa ero andata sempre di rado, e sempre distratta, assorta in pensieri estranei alla preghiera. Rivedo bambini, adolescenti, anziani, cantare con una sincronia perfetta e fermarsi a salutare tutti, senza fretta e con lo stesso trasporto ogni mattina.
La sera, quando la chiesa era vuota, ci andavo per raccogliere le idee, realizzando a poco a poco che era esattamente il posto giusto.
Ho ricordi “imbarazzanti” come quando, di ritorno da una risaia, ho perso una scarpa, e mi sono sentita sdegnata e offesa per le risate dei ragazzini, fin quando una di loro si è tolta una delle sue per darla a me, poco avvezza a camminare a piedi nudi sulla terra nuda. Accettando quel prestito, ho realizzato quanto goffa fossi, e quanto fosse facile cadere nell’abitudine di sentirsi superiori, un’abitudine che spesso neanche sappiamo di avere. Ci ergiamo a paladini delle ingiustizie e del misero, per poi capire che in realtà si ha spesso una sorta di arroganza di fondo, che ci fa sentire migliori. Migliori di chi?
Realizzare di essere io stessa una persona impregnata di pregiudizi, di quella vena di superbia che tanto deprecavo, ha rappresentato il primo passo per costruire basi diverse.
Se non avessi fatto questa esperienza, tutto ciò che nella mia vita è venuto in seguito, avrebbe avuto un altro sapore, sicuramente non sgradevole, ma non altrettanto prezioso. Sono partita nel Corno d’Africa per continuare il mio desiderio di missione, e percepisco che la gran parte delle situazioni vissute in questa terra sono per me sempre ricollegate in qualche modo al Madagascar. Sono arrivata con un’umiltà che altrimenti non avrei avuto, con una fede che mi ha guidata, con occhi più grandi e orecchie più attente. Ma la conoscenza è un lavoro lungo e complesso, pieno di insidie e cadute, ed è necessario sapersi fermare quando necessario, e ancora una volta ripartire e rimettersi in discussione.
Negli anni successivi, ripensando allo spirito dei missionari e delle suore conosciute in Madagascar, nello specifico ad Analavoka e nel vicino villaggio di Isifotra, ho capito di essere lontana anni luce dalla loro stessa forza e tenerezza. E non è per la sveglia il mattino prestissimo, per i disagi di una vita africana, o per la lontananza da casa; no, è per quella luce negli occhi che in seguito non ho più rivisto in altrui, né in me stessa.
Nei miei spostamenti porto sempre con me due cose ricevute in dono in Madagascar: una pannocchia di grano, ricevuta in dono in un villaggio, e una piccola scultura di legno, rappresentante una mano che sostiene il capo di un bambino, il quale vi si poggia lasciandosi andare fiducioso di essere al sicuro. Nel riceverla mi è stato detto: “Sentiti sempre così nel tuo rapporto con Dio, poggiati fiduciosa a quella mano che ti sosterrà quando non conoscerai bene la direzione”. Siamo abituati ad una cultura della forza, dell’orgoglio e dell’egocentrismo, quando in realtà non c’è stata lezione più bella che imparare ad affidarmi, perché anche ciò che in un dato momento mi sfugge, so che è giusto che sia.
L’odore dei fuochi accesi ai bordi delle strade credo che rappresenti questo, ciò che ancora mi guida, che di tanto in tanto mi ricorda l’essenziale, mi estranea da ciò che sto facendo e mi riporta lì, da dove sono partita. La strada per costruire ogni giorno una versione migliore di se stessi è lunga, e probabilmente non ha una fine, ma ciò che conta è decidere di salpare, sapendo che una mano sarà sempre lì, pronta ad arginare ogni nostra deriva, a custodire ogni nostra incertezza, a sorreggerci, un passo dietro l’altro. “Mura mura”.
Stefania Canu
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