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  • Immagine del redattorePietra d'Angolo

La «parabola» di una vita in terra di missione.


Il villaggio verso cui sono diretto si chiama Mahavelo «Che fa vivere o da vita», distante da Analavoka soltanto una ventina di chilometri. La pista l'ho percorsa più e più volte in questi 9 anni, sia in macchina sia a piedi, spesso da solo come quest'oggi. Nessun ostacolo speciale, salvo un'assoluta solitudine di una savana rotta solo da un lembo di foresta vergine, regno di cinghiali e altre bestiole. L'erba altissima della savana sembra voler ingoiare letteralmente la mia jeep che deve apparire da lontano come un natante in cerca di una riva.

Giunti ai piedi della collina dei Sepolcri (Vohidolo), ecco una piccola radura coperta di un tappetino verde smeraldo su cui deve esser passato un carro a buoi forse non più di tre ore fa, poiché le impronte delle ruote affiorano ancora come due fiocchi argentati. Diffidando dell'innocentissimo tappetto verde, ingaggio le quattro ruote motrici per superare la decina di metri a rischio. Non ho terminato un' Ave Maria che sento un ciak e le ruote anteriori sono come succhiate da una buca invisibile nel fango. Sono intrappolato. Sono cascato in uno dei tanti «lamboara», micro voragini create da infiltrazioni sotterranee subito ricoperte da abbondante vegetazione. Hatao akory? Cosa fare? Provo e riprovo marce avanti, retro marcia, e dai col badile, pietrame, frascame per colmare vuoti tra i pneumatici e il fango insidioso, più scavo nella melma, sperando di trovare il duro, più le ruote affondano.

Esaurite le mie risorse tecniche e fisiche, faccio appello, come farebbe un pagano, all'Onnipotente del cielo, dei protettori dei veicoli e dei viandanti, ai Cristofori e compagni delle truppe celesti, ma ancora niente! Sembra quasi che il cielo sia chiuso. Solo i moscerini, le zanzare e le cicale che purtroppo in questo periodo hanno infestato i raccolti, fanno eco alle mie inaudite invocazioni e senza voler scandalizzare nessuno, alle sterili innocue imprecazioni contro le autorità che dovrebbero sistemare strade, ponti, eccetera.

Che fare? Mi arrendo un istante e poi, lasciando l'auto in custodia ai suoi angeli, mi dirigo solo soletto verso il villaggio più vicino, a circa sei chilometri. Gli unici tre uomini che incontro in cammino mi convincono a tornare sui miei passi, sicuri che in quattro riusciremo a cavarcela: «Cosa vuoi che siano quattro o cinque metri di fanghiglia?».

Ore undici del mattino: il sole picchia già e lo stomaco inizia a brontolare, via gli indumenti di troppo.

Ore tredici: nulla di nuovo. La vanga è incipriata per bene di fanghiglia, ma la melma è sempre più profonda.

Spalle e torsi nudi come in spiaggia, ci si abbronza. Stavolta, sono i miei «buon samaritani improvvisati» che, riconoscendosi vinti, anch'essi si offrono a fare non sei ma dodici chilometri a piedi per lanciare l'Sos: uno va verso il villaggio di Mahavelo, gli altri due verso Analavoka. Fra quattro o cinque ore qualcuno si farà vivo.

Ancora solo, ai piedi della «Collina dei Sepolcri», non lontano dalle tane dei cinghiali, medito sulla vanità e caducità delle cose, anche delle tanto rassicuranti quattro ruote motrici e sul perché di tanti guai. Me la prendo persino col buon Dio al Cui servizio e per la Gloria del Quale avevo intrapreso questa pista assolata e deserta:

«Signore, perché non intervieni, perché non mi liberi?». Nessun eco sensibile: solo che in baleno, mi torna alla mente la figura di un povero tassista incontrato sull'Horombe qualche settimana prima, a cui avevo dato del folle perché per sbaglio o inettitudine si era inoltrato in un pantano, obbligando i veicoli di passaggio a tirarlo fuori con, secondo me, perdita di tempo. Pare che il tassista ora si beffi di me. Pare anche che il Cristo che andavo ad annunciare come Salvatore morto e risorto per noi agli abitanti di Mahavelo, pare mi sussurri al cuore: «Prima di te ci sono stato io nella melma della derisione, sospeso al legno della croce per interminabili ore, ignominiosamente inchiodato, chi è venuto a liberarmi? Quel giorno anche per me fu cielo chiuso, anche il Padre mio sembrava assente».

Accovacciato con la testa tra le ginocchia, all'ombra di un cespuglio, zittisco, medito, mi addormento e attendo. Le ore passano, le ombre del Vohidolo si allungano, le parole del Cristo sulla croce mi rasserenano. Infine: perché pretendere che il servo sia più agevolato del padrone? Arrossisco interiormente per la mia fede così fragile, mentre osservo con una strana calma le ruote della Toyota affondate nella melma. Verso le cinque del pomeriggio, il ronzio lontano e rassicurante di un motore, non può che essere Njara che solca la savana col suo vecchio trattore, è mai possibile? Confuso e contento allo stesso tempo, stringo la mano al mio samaritano accorso a tirarmi fuori dal fango. Fiero di rendermi servizio, mi offre un'aranciata e dei biscotti dicendomi: «Prendi, padre, so che hai fame e sete. Rimettiti in sesto. Ma la prossima volta attento alle trappole dei tappeti verdi della pista. Veloma!».

Ci separiamo mentre il sole tramonta oltre il Vohidolo (letteralmente: la collina degli spiriti). Il cielo chiuso di stamane mi apre il sipario ad altri orizzonti, oltre il cruccio del mio non piccolo «ego». Il Cristo si è servito ancora una volta del fango per ridar la luce e la vista a un cieco. Anch'io in quella trappola di fango ho intravisto in luce nuova la realtà e la «parabola» di una vita in terra di missione.



Francesco Meloni




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